Pier delle Vigne. Divina Commedia. Inferno, Canto XIII.

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Però disse ‘l maestro: Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi.

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: Perché mi schiante?

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: Perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi.

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue, ond’io lasciai la cima
cadere e stetti come l’uom che teme.

S’elli avesse potuto creder prima,
rispuose ‘l savio mio, anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa.
Ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

 Ma dilli chi tu fosti, sì che ‘n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece.

E ‘l tronco: Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ‘ polsi.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

 infiammò contra me li animi tutti
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti.

 L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede.