Il palazzo della corte e la forca delle esecuzioni

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Il Palazzo della Corte, detto anche Domus Alagonissae (Palazzo Alagonissa o forse della Leonessa) è stato per diversi secoli la sede municipale, fino al 1993. La collettività melfitana, detta anticamente università, esprimeva elettivamente il proprio sindaco scelto tra le famiglie borghesi più importanti, il quale rappresentava gli interessi comuni nei confronti degli altri due poteri forti presenti sul territorio: il principe feudatario e il vescovo.

Questo palazzo si affaccia sulla omonima piazza della corte, cuore civile della città (oggi Umberto I) e costituisce idealmente, insieme con i più eminenti castello e cattedrale, una terna di simboli del potere sociale ed economico, prima ancora che civile e politico, che ha dominato la città di Melfi per almeno sei secoli.

Spesso la comunità cittadina è stata la parte più debole e perdente del sistema, costretta a indebitarsi con il principe o con le organizzazioni ecclesiastiche, per quanto caritatevoli come il Capitolo della Cattedrale o il monastero delle Clarisse di San Bartolomeo, per far fronte alle continue esigenze di sostentamento del popolo vessato da una perenne povertà, spesso aggravata da carestie e pestilenze come quelle del XV e XVII secolo.

Forme diverse di feudalesimo, che si è protratto fino al ’700 quando l’azione moderna e riformatrice di Carlo III Borbone e l’azione caparbia di intellettuali locali come Angelo La Monica porranno lentamente fine anche nel Mezzogiorno al triste fenomeno medievale.

Il palazzo conserva al proprio interno il simbolo dell’autorità spietata del feudatario, costituito da una mensola in pietra utilizzata per le esecuzioni capitali mediante impiccagione, successivamente mascherata come un pozzo. Su di essa è scolpito un bassorilievo che riporta su una faccia il seguente motto:

(In vento scribit laedens)

Scribit (in) marmore lesus

(Colui che offende scrive nel vento)

Colui che è offeso scrive (nel) marmo

Ma ancora più terribile è l’altra faccia, che riporta il bassorilievo di un busto, forse quello di Ser Gianni Caracciolo, al cui fianco è inciso il monito adottato anche dai Visconti di Milano e fatto poi proprio da Francesco Sforza e dall’Ordine scozzese del Cardo, quindi dal re di Scozia e infine addirittura inserito nell’emblema reale del Regno Unito:

Quietum nemo (me) impune lacescet

Nessuno provocherà me, quieto, restando impunito

Sulla colonna è scolpito in bassorilievo il basilisco alato, stemma araldico della famiglia Caracciolo, divenuto poi l’emblema ufficiale della città riportato nel gonfalone civico.

Il cortile del palazzo ospita anche un busto in bronzo dell’imperatore Federico II di Svevia, donato alla città dall’ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca negli anni ’70 del secolo scorso.

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