Re Manfredi nella Divina Commedia

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Inferno, X

Dante incontra  Farinata degli Uberti, capo dei Ghibellini di Firenze,

che combatté valorosamente insieme ai senesi e a re Manfredi a Montaperti, contro la sua città che era in mano ai Guelfi

Dante mostra stima e ammirazione per il valore dell’uomo, anche se di parte avversa alla sua.

Più avanti Farinata gli svela di trovarsi in quel sesto cerchio, destinato agli eretici,

insieme a Federico II di Svevia, il quale non credeva nell’immortalità dell’anima.

O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto.

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche, però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in su tutto ‘l vedrai.

Io avea già il mio viso nel suo fitto
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.

E già ‘l maestro mio mi richiamava
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.

Dissemi: Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ‘l secondo Federico,
e ‘l Cardinale e de li altri mi taccio.

 

Inferno, XXXII

Dante incontra Bocca degli Abati, traditore dei guelfi fiorentini nella battaglia di Montaperti.

I due hanno un violento diverbio, nel quale si manifesta tutta l’ira del poeta contro il traditore della patria.

Se voler fu o destino o fortuna,
non so. Ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ‘l piè nel viso ad una.

Piangendo mi sgridò: Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?

E io: Maestro mio, or qui m’aspetta,
si ch’io esca d’un dubbio per costui
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta.

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
Qual se’ tu che così rampogni altrui?

Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo, rispuose, altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?

Vivo son io, e caro esser ti puote,
fu mia risposta, se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.

Ed elli a me: Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!

Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna.

Ond’elli a me: Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi.

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,

quando un altro gridò: Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?.

Omai, diss’io, non vo’ che più favelle,
malvagio traditor. Ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle.

 

Purgatorio, III

Dante incontra Manfredi.

Il re prega Dante di comunicare la sua condizione alla figlia, erede della casa reale di Svevia e moglie del nuovo signore d’Aragona,

che aveva riconquistato la Sicilia togliendola agli usurpatori angioini, dopo la rivolta dei Vespri.

Manfredi racconta anche di come, dopo essere stato ucciso dagli angioini nella battaglia di Benevento,

il suo corpo sepolto sotto una grande mora fosse stato dissotterrato per ordine del papa

e le sue ossa disperse durante la notte sulle rive del fiume Verde, in Abruzzo, fuori dai confini del suo regno ormai perduto,

dove “or le bagna la pioggia e move il vento”.

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: Or vedi
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Poi sorridendo disse: Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice
ond’io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.